venerdì 23 ottobre 2015

Prefazione di Ivan Fedeli al mio nuovo libro di poesia "In questo breve corso senza fine" (Puntoacapo editrice, ottobre 2015)

Prefazione
“ogni giorno tolgo il buio
smuovo un po’ d’acqua nel mare,
tutto vive senz’orma.”

Tre versi per introdurre il nuovo, compiuto lavoro di Marco Righetti: tre versi, a dichiarazione di poetica. È l’idea di “togliere il buio” che più affascina, un lavoro quotidiano, incessante, attraverso il quale dare forma a una materia, la poesia, di per sé sfuggente, liquida, insidiosa, buia per l’appunto. Il poeta, dunque, tenta, procede, indaga la realtà, cercando un raccordo tra linguaggio e percezione, tra io e non io. Viene da pensare a Righetti come a un trovatore moderno, che leviga – come fa il mare – il percepito, fino a ridurlo ad osso, membrana. Compiuta questa operazione, ecco la consapevolezza di un risultato esiguo, ancor più sfuggente dell’indagato: ogni cosa esiste senza riferimento. È forse possibile trovare, allora, una via comune per conciliare lo scrivere e il comunicare? Da tanto  – In questo breve corso senza fine ne è la conferma- l’Autore vive sulla propria pelle la sottile linea che divide la poesia dalla non–poesia. La calca, anzi, per un bisogno primario: quello della ricerca di una forma archetipica, in grado di costruire ponti tra le forme in cui l’esperienza si dà al poeta. Ecco allora che, nella sfera del poetabile, sussistono molteplici dimensioni: quella personale, di un Io sotteso, mai ingombrante per la verità, che parla lealmente di noi, recuperando negli affetti, nel passato, il dolore del tempo; quella sociale, protesa verso uno sguardo lucido e penetrante che denuncia gli strati incistiti di una civiltà autistica, incarnata in se stessa, colpevolmente autoreferenziale (si noti, ad esempio, il trittico “Sui muri di Lampedusa”); quella visionaria, a tratti immaginativa, più spesso riflessiva e gnomica, che emerge a cornice di molte pause meditative presenti nel libro, in modo più lucido e convincente rispetto alle prove precedenti. Righetti è autore autentico: lo si legge a tutto tondo, senza preclusioni verso ciò che accade in seguito; possiede come cosa sua un talento invidiabile, per cui tutto alla fine si chiarisce e si giustifica. La sua cifra stilistica è compiutezza compositiva, come già acutamente notato da Lauretano, e, nel contempo, scrittura che dà spiragli ma non spiega:  Bisogna toccare la vita / lasciare appena / le nostre impronte: chiosa così, con discrezione, il poeta, in uno dei primi frammenti lirici, quasi nell’atto poetico coesistessero il riguardo dell’altro, il rispetto per la materia poetica, la responsabilità di comunicare senza fingere. Un vero codice lirico, insomma, da interpretare attraverso i semi sparsi qua e là, nel tessuto del libro. Eppure quanto forti arrivano al lettore gli strappi dei versi, concentrati uno via l’altro, nelle cesure, negli accenti, nello strato del dolore:
scopriamo case vuote,
le abitammo ma è come
non averle mai sfiorate,
dimore acerbe,
non ci difendiamo
da nessuna nascita.
O ancora:
il tempo frantuma gli anni
li fa simili a rondini senza nido,
vola la vita,
ora le sere sono immense.

Verrebbe spontaneo pensare a una partecipazione sofferta nei confronti dell’esistente, quasi per compenetrazione della vita in noi. In realtà, nelle pagine del libro, via via più dense fino all’apice dell’ultima sezione, si fa luce l’idea, mai esplicita, sempre sottesa, che l’esperienza individuale e collettiva, in ogni sua forma, non sia del poeta ma appartenga al quotidiano; essa esige, quindi, un linguaggio puro, controllato, mai scontato, che indichi un’interazione continua tra noi e l’altro, in chiave di pietas reciproca, condivisione. Ecco, in Righetti, è questa l’idea forte di poesia che si afferma, un umanesimo in cui la centralità dell’uomo non è mai data per certa: essa va cercata per indizi. “In questo breve corso senza fine” è, per quanto possibile, il punto di arrivo del percorso, il suo limite. Ne deriva una visione lucida e onesta della complessità umana, in ogni contesto essa si manifesti. E un quadro di rappresentazione compatto, senza fronzoli, in cui l’uomo rispecchia il poeta.  


Ivan Fedeli

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