Libreria
romana KOOB, 11 dicembre 2013: Plinio Perilli presenta il romanzo LA VITA E’
MOLTO PIU’ di Marco Righetti
Righetti
ha esordito nella narrativa l’anno scorso con Sole Nero, a un’età che non è
certo quella in cui uscì un Bufalino, o lo stesso Svevo, che esordì trentenne
ma divenne famoso ben più tardi, grazie a Montale solo nel ’25, cioè poco prima
di morire tragicamente.
La vita è molto più è dunque il suo secondo romanzo. Ha corso
rischi nel passare dalla poesia alla narrativa, ma mi ha colpito il modo in cui
anche questa volta se li è lasciati completamente alle spalle. Al massimo nel
romanzo ci sono omaggi a Cardarelli, Raboni, Sbarbaro, ma sono soltanto
citazioni, nuances, profumi, sapori: la struttura narrativa del libro resta
autonoma, preservata, secca, racconta con le tecniche giuste, libera
dall’eccesso di parole così come scevra dall’affettazione del modernismo, da
quell’indulgere alla ‘versione cinematografica’ che già all’inizio sembra
minare certi libri, per cui non si capisce più se sono romanzi o bozzetti
preparatori di film.
Una
volta il cinema guardava con rispetto il romanzo, e ne traeva ispirazione per
giungere – attraverso l’opera cinematografica - a un tipo diverso di fruizione
dell’opera letteraria originaria. Oggi certi libri sembrano nascere in partenza
come sceneggiature. Nel romanzo La vita è
molto più, invece, c’è un’assoluta valenza narrativa, un cifra che è tipica
della sola opera letteraria, l’indugiare su atmosfere, aperture d’immagini,
situazioni, dialoghi interiori.
Anche
Sole nero, che a una lettura
disinvolta sembrerebbe un copione per film, è in realtà un romanzo puro, un
conte philosophique, una riflessione sull’uomo, un romanzo che, nonostante la
sua vocazione a thriller su basi scientifiche ambientato nel 2022, è totalmente
dentro il presente e costruisce il dramma in un futuro che è dietro l’angolo,
che è anzi forse già nostro…, dramma dovuto a un’eclisse reale e metaforica di
ogni certezza vitale e che supera le vite dei protagonisti e compromette la
loro stessa natura profonda, destabilizzandoli, a partire dal Sole che diventa
nero (ben oltre la sua stessa costellazione, è il caso di dire, di significati
esoterici e alchemici).
Di
Righetti mi ha sempre colpito la grande qualità dell’estro narrativo, al di là
del poeta che è. Una grande virtù di questo libro è il suo lasciarsi leggere
agevolmente. Un’altra qualità del romanzo è l’abilità nei giochi temporali,
attraverso flashback e salti che vivacizzano il tessuto narrativo, per cui una
storia come questa da cronaca diventa bilancio interiore.
Il
plot solo apparentemente riguarda i protagonisti, in realtà dopo una riga ti
rendi conto che coinvolge tutti noi: c’è un bambino affetto da autismo, ma
l’autismo – raccontato in modo struggente - esce subito dalla storia di Francesco
e va a toccare lo stato di salute spirituale di tutti i protagonisti, fino a
diventare una cartina di tornasole dolorosa di tutto l’uomo contemporaneo.
C’è
poi la bellezza della prosa, fluida, ricca, munifica. La narrazione è sempre in
bilico fra sogno e realtà, ove la realtà può essere sognata e il sogno è più
incidente del reale. Vi sono anche dei flussi di coscienza molto efficaci, che
però Righetti risolve a modo suo, senza che occorra per lui mettere mano alla
grande eredità novecentesca, Joyce, Woolf, Svevo.
Bellissimi
i nomi: come quella evangelica, la protagonista femminile assoluta, Veronica, è
un’icona permanente del suo dolore ma anche della sua libertà e grande forza
d’animo, a cui d’altro canto attinge Jacopo, il marito, in bilico fra l’essere
se stesso e il migliorarsi: il che appare una metafora del moderno rapporto
quotidiano fra donna e uomo, questa dialettica dei ruoli, questo reciproco
attingere l’uno all’altro. Non fingiamo di disconoscere - dietro il grande
emblema narrativo che è La vita è molto
più - la difficoltà, la peripezia interiore, sentimentale, erotica che
costituisce oggi il rapporto in una coppia. Nel romanzo la donna è più forte,
più pronta ad affrontare la realtà (come sovente succede), più sincera, forse
più onesta, persino nell’adulterio con Andrea. Capitolo, questo, bellissimo:
perché è da scorci del genere, da quei corridoi, da quelle fughe, da quelle
stanze - che, come in un’architettura, si aprono nell’ombra - che si spalancano
le qualità di un libro, al di là dell’approccio forte, del suo fulcro centrale,
che è poi l’accettare o no questo ragazzo. Ma anche qui attenzione: l’accettare
Francesco coinvolge non solo e non tanto i protagonisti quanto piuttosto il
lettore. Quando Jacopo dice a Veronica ‘Ma non ti accorgi che questo figlio ci
ha tolto l’energia per andare avanti’ è ancora lontano dalla comprensione. In
realtà è proprio il figlio a spingere segretamente i genitori a rendersi conto
di quale sia il vero amore. È molto bello come padre e madre reagiscono a questa
esperienza troppo intensa, più grande di loro; e Veronica a un certo punto fa
una riflessione acutissima: ‘Io sono sola
al mondo. Perché ho Francesco. La mia è l’unica solitudine a due. E allora
siamo soli due volte’. È, questo di Veronica, un grido alla Munch, imploso,
fortissimo.
Quello
che intriga in questo libro è come reagisce la società intorno ai protagonisti.
Gli stessi adulteri narrati non fanno altro che rafforzare il rapporto fra i
protagonisti, per cui proprio grazie a queste peripezie i protagonisti si
troveranno fortificati e alle prese con questa creatura che è più forte di
loro: ‘Il cerchio non si spezza, perché
c’è Francesco. È lui che sta tenendo insieme il cerchio. Lo ricuce in
continuazione col suo solo esistere’. Francesco va oltre il suo stesso
problema, perché è proprio lui ad avere le chiavi dell’esistenza dei suoi
genitori, anzi paradossalmente diventa lui il loro punto di riferimento, la
loro stella polare, l’unica via per non perdere la propria rotta, altrimenti ci
sarebbe la deriva. La deriva è evitata grazie a Francesco. Diversamente vi
sarebbe solo un’ebbrezza, come quell’ebbrezza che causa a Jacopo l’incidente,
episodio iniziale e, successivamente, clou del libro.
È una prosa moderna, elegante, pastosa, fluente, morbida, molto cadenzata, con un ritmo inesorabile come deve essere un vero ritmo narrativo, oggi.
È una prosa moderna, elegante, pastosa, fluente, morbida, molto cadenzata, con un ritmo inesorabile come deve essere un vero ritmo narrativo, oggi.
Mentre
un romanzo breve come Sole nero ti
può portare al piccolo capolavoro - perché in cento pagine la narrazione è
condensata, è più facile trovare il ritmo giusto, la struttura è
necessariamente contenuta - un libro come questo, che invece sfiora le 200
pagine, anche molto fitte, ha dovuto fronteggiare i rischi della narrazione
lunga, di pagine pleonastiche: e invece non perde mai il suo fulgore, la sua
perenne necessità. Anche i momenti più lirici sono inseriti perfettamente nel
diritto e dovere narrativo del libro. C’è un passaggio struggente in cui
l’autore parla del ‘prato in fondo al
cuore’, è un momento di lirica pura ma perfettamente narrativo. E in quel
passaggio c’è un’altra frase rivelatrice: ‘i
protagonisti non siamo noi’, il che
significa che i genitori di Francesco sono latori, messaggeri di una verità più
forte che è destinata a tutti noi, alla società in se stessa che prende le
distanze da ciò che non è standard.
L’abilissimo
gioco narrativo ci fa rendere conto che siamo noi stessi affetti da autismo,
che la società è diventata autistica e non riesce più a capire qual è la sua
vera identità e non è un gioco psicoanalitico. ‘Solo l’inidentità regge il mondo’ diceva Montale nel Quaderno di quattro anni. Che cos’è
l’autismo? Diventa inidentità, indagine su una solitudine affollata di ‘altri
da sé’, una bifrontalità che ci tiene tutti e ci collega.
Il
fascino del libro è in questa grande qualità di scrittura. Questo romanzo con
dolcezza e tenerezza ci prende per mano e ci porta in un purgatorio dolente che
riguarda un po’ tutti noi, mette a fuoco il nostro bisogno di ritrovare il
rapporto con il proprio io, un rapporto che vada al di là dei numeri, dei Pil,
delle economie e delle finanze che dominano la nostra giornata. Questo libro ci
fa scoprire che ci siamo impoveriti, siamo stati defraudati di questa
dimensione profonda: ‘L’amore non serve a
nulla, solo al rimpianto di non averlo capito quando c’era. O alla consapevolezza
che quando è finito noi diventiamo figure senza più leggerezza' dice
Veronica a se stessa. Sono figure, i protagonisti, che hanno smarrito la
leggerezza, quella virtù che Calvino evocava per il nuovo millennio.
In questo romanzo siamo oltre la baumaniana formula della ‘modernità liquida’, che non ha bisogno di radici di sé, ma che forse non riesce a sopportare il maremoto di se stessa. L’arte di Righetti è raccontare una storia in un modo tecnicamente e narrativamente felice, sin dall’incipit, con quelle frasi spezzate, quasi musicali, quegli incisi perentori e leggibilissimi.
In questo romanzo siamo oltre la baumaniana formula della ‘modernità liquida’, che non ha bisogno di radici di sé, ma che forse non riesce a sopportare il maremoto di se stessa. L’arte di Righetti è raccontare una storia in un modo tecnicamente e narrativamente felice, sin dall’incipit, con quelle frasi spezzate, quasi musicali, quegli incisi perentori e leggibilissimi.
È un
dono di questa narrativa un passaggio toccante dove lei è sveglia mentre Jacopo
dorme, lei poi si affaccerà dal balcone nella notte in una scena molto intensa,
ma subito prima l’autore indugia sugli sguardi materni di Veronica, donna
adulta che scopre il suo uomo avvolto nel sonno come un bimbo. Vien da pensare
a un racconto di Camus tratto da L’esilio e il regno, L’adultera, dove
l’adultera è inquieta, e nel momento in cui lui si addormenta si alza ed esce
verso il mare del nord Africa. Veronica guarda il marito dormiente e sente il
dovere di proteggerlo e nello stesso tempo si sente protetta da questa ambigua
fedeltà a un amore che però è pieno di malesseri.
Le
pagine di questo libro vivono nel reale e nell’inconscio, nel flusso di
coscienza dei protagonisti che reagiscono dentro la realtà e contro di essa. Ci
sono nel romanzo dei passaggi bellissimi, degli incanti, delle soluzioni
meravigliose, per esempio quella in cui Francesco esclama ‘Morto Andrea’ , riuscendo con quella sua sconcertante empatia a
cogliere misteriosamente la morte di Andrea. I protagonisti a contatto col
figlio vanno a scuola di se stessi.
Ci
rendiamo conto che Francesco è un Petit prince, una creatura radiosa, un
bodhisattva, un illuminato come direbbe la cultura buddista, un portatore di
benedizione, è lui che comprende oltre le apparenze: Francesco è una guida agli
stessi genitori. Ecco perché la vita è molto più, perché non la possiamo ridurre
a canoni scontati: qui è in vigore un canone inverso, il canone della vita è in
quelle frasi aforistiche, in questa ricerca di leggerezza, in questo
rovesciamento continuo fra ombra e luce, per cui la vera luce, ci dice
Francesco, è nell’ombra. È una storia tutta intima, che in virtù di questa
mimesi antropologico-culturale-epocale riguarda in realtà questo nostro tempo,
affetto da un male dell’io atrofizzato a figure che non conosciamo più.
La vita è molto più è una grande parabola umana, che ci dice
qualcosa di profondo e ineluttabile e inopinato di noi, noi che ci sentiamo
sempre salvi, moderni, progressisti, giustificati. Dall’abrasione di questa
storia sentiamo che la nostra è una mentalità ristretta, malata. ‘Talvolta la tua giornata è una bufera che passa
sul prato, ma non potrà mai togliergli il verde’: il verde è la certezza di
poter ancora sperare, il non perdere mai lo sguardo verso il futuro a causa
della tristezza dei tempi. ‘Ti prego,
Francesco, continua a ricaricare la vita di chi quasi non ce l’ha, non lo saprà
nessuno… col tuo problema non sei più immune da nulla, tu puoi influire sulla
vita del mondo, è il tuo dono tremendo’. È toccante la dolcezza di questo
passo e nello stesso tempo questo tono da tragedia greca. E c’è subito dopo la
rievocazione del fatto che Francesco ha indovinato la verità su Andrea:
Francesco è un portatore di verità.
La vita è
molto più è una grande parabola laica, non c’è bisogno di portare l’habitus
mentale dello scrittore cattolico, qui si lavora per salvare l’uomo, la sua
pietas. ‘Forse un giorno crederò in Dio,
per il momento sei tu l’altare’. L’altare è questo figlio che in
silenzio indica ai genitori la via per vivere senza farsi schiacciare dal suo
problema. La vita di Francesco è misteriosamente parte di una vita più vasta,
più autentica, inscindibile: ‘Ogni volta
che scrivi o disegni accade qualcosa di buono nel mondo’ mormora Jacopo al
figlio. E c’è quella stupenda frase, che pronuncia il padre e che dà titolo al
romanzo: ‘ Una mamma ha scritto che la
vita è molto più’.
Ciao Marco, ho letto con grande interesse la stupenda presentazione che Plinio Perilli ha fatto del tuo libro, credo che non la si possa leggere senza desiderare subito dopo di avere il libro tra le mani.
RispondiEliminaCome ho lasciato scritto in risposta sul mio blog pubblicherò il tuo commento in coda al post che pubblicherò il giorno 27 ( prima non pubblico nulla, mi godo un po' il Natale!), poi, se me lo permetterai mi piacerebbe condividere con i miei lettori questa bella pagina, sono certa che anche loro ne resterebbero affascinati.
Ti ringrazio per la stima che mi hai dimostrato ricordandoti di me e ti auguro buone feste.
Antonella.
P.S. volevo iscrivermi tra i tuoi lettori ma non trovo dove farlo!
Ciao Antonella, sono lusingato della tua attenzione, naturalmente sarò io a ringraziarti se vorrai condividere la recensione con i tuoi lettori, potrai immaginare che uno scrittore non chiede altro... Il mio sogno è parlare con questo libro a tutti gli italiani, rivolgermi a chi soffre, a chi ama, a chi vive... Ma soprattutto mi colpisce la tua non comune gentilezza, disponibilità. Ora provo a smanettare sull'account e chiedere di averti nelle mie 'cerchie' o cose del genere, non sono affatto pratico! Buone feste anche a te. Ciao, Marco
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