domenica 24 novembre 2013



L’ordo rerum del mondo,
e il sogno dolce/amaro della poesia

(sul poemetto “A occhi chiusi” di Marco Righetti)


   “L’occasione per offrire uno sguardo commosso e partecipe alle madri che affrontano disabilità dei figli”… E poi ancora: “un atto di solidarietà senza retorica”, per “restituire poesia a un privato urgente e sommesso”… Sono le nude e fin troppo intense espressioni d’intento con cui il Nostro presenta il suo scritto.
   Ed è già tutto in quest’ossimoro struggente (urgente e sommesso), il pregio di quest’ultima composizione di Marco Righetti, che usa oramai il “poemetto” – l’ingranaggio suadente della sua misura, la sua vicenda architettata e insieme cadenzata, diluita – a vero e proprio “romanzo” breve (e sua traccia, sua implosa epifania), lirico groviglio da dipanare, fiorito roseto da contemplare, attenti a non ferirsene (ma anche ben disposti a farlo!) per la pungente durezza delle sue spine...

   l’anestesia di una gioia contiene
   il barcollante mio dirti tesoro

   Urgente e sommesso è già il suo porsi in prima persona femminile, monologando drammi usuali e il destino speciale di una mamma alle prese con un figlio disabile – figlio della sua carne e del suo “sottosuolo emozionale”, del suo aggirarsi mai invano in un incubo o “in un sogno, un ordo rerum”… Quello, quelli insieme del Mondo e della Poesia.
   Già il titolo del resto, esplicito o forse inconscio richiamo al Tozzi romanziere acre e introiettato di “Con gli occhi chiusi”, richiama tutto un destino e un’aura del ’900, dissipati, oramai, eppure ancora nel cuore: del discorso, del linguaggio che è stile, dello sguardo ribaltato al didentro, estroverso in pectore
   In 9 strofe cadenzate, fluenti a denso, emorragico “flusso di coscienza”, Marco architetta una trasparente e inesorabile cattedrale interiore tutta consacrata al “sottosuolo emozionale”, al “fuoco delle consolazioni”, all’”anestesia d’una gioia” – insomma al dramma non infrequente d’una nascita difficile, tarata, e poi soprattutto al rito esausto della scarsa ma cocciuta speranza residua…
   Almeno altre due volte, in anni recenti, quest’epifania del dolore, cioè questa Natività incrinata, esasperata di redenzione (etica, medica, morale, esistenziale), è fiorita nel sangue-petalo della poesia: penso alle liriche assolute di Umberto Piersanti per il figlio Jacopo, in Nel tempo che precede (Einaudi, 2002): “O figlio che non cresci / figlio per sempre”… E figlio per sempre è anche Alessio, altra ostica e adorabile creatura “autistica”, cui Giuseppe Fedeli ha dedicato l’anno scorso un altro memorabile libro, amorosissimo omaggio di padre, spurio e diaristico, potente di tenacia (Guarda nell’abisso, Pagine, 2010), dove la prosa si condensa sempre in poesia, e la poesia rirotola giù in prosa, negli inconsci crepacci di sogno ma anche orrida, trafelata ansia della vita.
   Marco Righetti, con tutta la laica pietas che si addice a un poeta vero, e soprattutto a un uomo, discepolo e adepto vero dell’Umano, irradia, rastrella insieme nuvole di sogno e zolle esistenziali, azzurro e pietre – in nome di quel luziano “duro filamento d’elegia” che solo può coniugare, esorcizzare in poesia questi drammi  sempre scorrevoli e irrisolti, purgatoriali e angelici, sommersi e poi salvati… “L’albero di dolore scuote i rami…” scriveva Mario Luzi in Onore del vero, “spedito tra l’eterna compresenza / del tutto nella vita nella morte”…
   Qui lo scenario, l’umbratile narratio è il racconto di questa nascita – dunque di questa gioia incrinata dai bollettini medici, dalle diagnosi a rischio… Ma è ancor più il lirico romanzo di un’odissea dello spirito, di un rito eroico e schiacciato proprio nella fede:

   avrò sempre necessità d’un’isola
   per leggerti con cura, che tu prenda
   le mie mani  mi conduca dove io
   non avrò nome e sarò penna o vela,
   tua l’ossatura del mare.  

   Il figlio di questo fratturato, insidiato “passaggio d’aria”, nelle “smorfie / di un grido ossigenante” chiede ora non più alla madre ma forse all’intero mondo “latte incubante” per rigenerarsi, “l’inerpicarsi dello sguardo” risale a baratro di gioia “il visomiele” che “è ancora misto a sangue”…

*********

   Assodato il pregio dell’assunto lirico, la nobiltà del racconto, l’incandescenza spirituale che d’arcano lo rifonde in “quotidie”, grandemente ammiro in Marco la munifica, imprescindibile precisione del linguaggio – sempre piegato (piagato?), smussato, domato alla grazia emergente, alla necessità inderogabile del pianeta poesia… Un èmpito finanche astrale, ma mai astratto (e ricucito, suturato in continuum – come ferita profonda che rifiorisca – da un ricamo gnomico di enjambements):

  
   Non sono più cadute quelle biglie
   lanciate nel futuro si saranno
   saldate a lai di stelle o forse nacque
   la convergenza per altre creazioni,
   vivo privata del cuore che m’ero
   forgiata per generarti un aiuto
  

   Una religio insieme dei gesti e delle parole, dei pensieri e del lessico che almeno sa imbrigliarli, rinarrarli a preghiera sottaciuta, poi urlata in silenzio, arringata abbagliante, dentro il grigio il vuoto o i colori delle vite degli altri, nostre vostre loro, se ogni vero, angustiato Io, poi si assomma, si potenzia e redime in Noi…
   Contano poi i versi, la qualità del dettato, in quest’arringa al Cielo che parla dei dolori della Terra, dei travagli di una nuova anima cui il nuovo corpo non sembra rendere giustizia, collaborare in “espansione di progressi, / coriandoli d’ottobre nel lettino”…
   Versi che snocciolano, solfeggiano e ricompongono in laica laude quel duro filamento d’elegia che sempre la poesia anela a costruire, convertire armonico:

   … mi giravo in un sogno, un ordo rerum …
   … uscire da me: l’orbita è il tuo mattino …
   … prendo io la colpa amplifico il mio cuore …
   … ma la sentenza rimane una favola …
   … sei nella norma o qualche punto fuori … 
   … un mio cercarmi senza più memoria …
   … pena imperfetta puntura di pace …
   … vedi il mondo? si spezza all’orizzonte …

   Il bivio di una brulicante, perennemente incerta ma anche aperta coppia di opposti, discrasia mentale e lessicale, enigma insolubile, ritma e cadenza il dettato di una selva di reciproche ipotesi o forse sentimenti, emergenze, desideri bifronti: fuoco/freddo, “calore congelato”, “sei fuori, dentro questa corsa”… 

   Un linguaggio, attenzione, assolutamente moderno: “lo zapping mentale”, “è lunga un reality”, “nell’avvolgente lentezza di pale / eoliche”, “chiedo un mattino frisbee che mi torni / senza peso”, “l’hai scaricato per noi dalla rete / celeste”… Lessico e insieme scenografia metafisica (seppur dolente) di una Modernità che ancora va cercandosi, testandosi      

                        … resto impreparata
   al capogiro piovuto da questa
   pancia-letargo sei millimetrato
   da parametri e monitor la nascita
   poteva insomma procedere come
   tempio davanti all’azzurro in programma.

*********

   C’è una prosa lirica poco nota eppure illuminante della cara Alda Merini, con cui quest’inquieta e sapiente poetessa carnale, vera compunta agiografa del desiderio, dà conto della pura impurità d’ogni Corpo, assolve comunque “Il dolore” come massimo ambasciatore del bene, evoca e canta il ponte che in trasparenza riconduce ogni Anima al suo unico cuore, piccolo-grande muscolo, fibra sfibrata che mai demorde a far vivere:

   «  Non è detto che l’uomo che soffre sia un vegetariano, uno che rinneghi i piaceri della carne. Soffrire vuol dire essere a conoscenza della propria natura e di quanto molto possa la materia sullo spirito a livello di sfiguramento. La materia è la vera devianza dell’uomo, la fame, la sete, il sonno, l’appetito sessuale: cose di per sé dinamiche che creano intorno allo spirito quei fuochi d’artificio che fanno dire all’uomo egli è bello in quanto uomo, cioè egli è bello in quanto ha molti accidenti spirituali. Ma la bellezza univoca del corpo è lo spirito che, se si allenta ogni correlato, va in necrosi anche se si mantiene straordinariamente in vita.  »
                              
                (Alda Merini, Un’anima indocile, La Vita Felice, Milano, 1996)

   Ecco, collego liricamente  questa prosa inopinata sugli “accidenti spirituali” (e “la bellezza univoca del corpo”) ai versi disillusi e fulgidi del miglior Robert Frost (quello che in Conoscenza della notte, “Stringendosi alla terra”, recita: “Nessuna gioia adesso mi piaccia / Se non mischiata a dolore, / A sfinimento e ad errore: / Per questo io amo la traccia / Di lacrime, il marchio che resta / D’un quasi troppo amore, / Il dolce d’amara corteccia / E delle spezie il bruciore”…). E torno al mio caro Marco allietato che tanto ostico e condiviso rito dolente mai perda di vista, anche in ossequi alla natura matrigna, alla natura difettosa, l’ostinata certezza o abbaglio della speranza, delle speranze testate

  
   allo specchio ti guardi duplicato,
   la sconfitta ti fa esplodere sogni
   mi sorridi nel vecchio trucco, farmi
   schiava. M’avverto che io farò la madre
   tu il figlio anche se scivolo diretta
   nell’atopia e ricerco la tua anima
   accolito o aquilone e con speranze
   testate sostituisco la natura
   difettosa  

   Dolore e Speranza, speranza d’ogni e in ogni dolore…
   La materia è la vera devianza dell’uomo
   Sembra essere un tema assolutamente spirituale, eminentemente teologico – e invece ora ci piace rintracciarlo proprio nel gran cuore dolente, nella sublime penna incrinata dell’assiso Leopardi (stiamo sfogliando il suo cauterizzato, vaccinato Zibaldone di pensieri), Nume e in fondo anche Medico della Poesia…

   “…  Anche il dolore degli uomini si consola o si scema col persuadersi che il danno, la sventura ec. o non sia tale, o sia minore ch’ella non è, o ch’ella non apparisce.  …”

   “…  La speranza non abbandona mai l’uomo in quanto alla natura. Bensì in quanto alla ragione.  …”

   Mai questa fervida, compartecipe poesia di Marco Righetti, abbandona la Speranza di poter col tempo, e con l’espansione di progressi, vincere o comunque attutire il carico e l’impatto del Dolore…
   Circolarmente, essa finisce così come poteva, potrebbe cominciare – rinascendo all’unisono, ripetendo l’inciso e il dono lirico della sua luce, musica e ritornello dei “trilli a senso variabile”, insomma dei vagiti di questa speranza che ancora non ha i denti, ma morde l’aria e i nostri cuori, “per la fame” di vita e di poesia.

                                    … non posso
   inghiottire e basta, non mi feriva
   il tuo vetro cisterna di dolcezza:
   se ora m’affaccio in noi c’è ancora il vento
   che ti strappava voli e mi lasciò
   entrare a occhi chiusi come madre.


                                                                   Plinio Perilli
      
  







NOTA INTRODUTTIVA APPOSTA DALL’AUTORE:


Questo poemetto è l’occasione per offrire uno sguardo commosso e partecipe alle madri che affrontano disabilità dei figli, è un atto di solidarietà senza retorica, un tentativo di restituire poesia a un privato urgente e sommerso.


A occhi chiusi
                                                   
I

Avevo posto un’illusione a guardia:
che mi scorrano solo melodie
fra le gambe, ma in mezzo è semprevivo
il flusso delle notti emorragia,
c’è che lo zapping mentale finisce
su ricordi a calore congelato,
cerco ancora il vestito per non essere
nuda di fronte all’assalto di vite
che mi sono mancate e vedo addosso
ad altre, il sottosuolo emozionale
è treno lanciato i venti che impazzano
mi muovo a piedi pari per cadere
su ballate, memorie senza stop.
Nubile d’esperienza, in copertina
immaginavo le varie maestà
di tutine (piscina per stupore)
il tulle di carrozzine, mi vedevo
già col numero d’una gentilezza
e il bagno solito nei complimenti
è il primo figlio e porta in giro il bene
di questi nove mesi ha rovistato
tutta la gioia pronta e me l’ha data
mi giravo in un sogno, un ordo rerum




II

ma era solo una bolla. Importa il fuoco
delle consolazioni che qualcuno
m’inoculò per abituarmi al freddo
prossimo al comparirmi tuo sincero
sul petto il lampo della targa chiara
la voce estratta dalle biblioteche
del noto azzarda una patologia
palloncino costantemente a rischio
può scoppiare o sgonfiarsi per un nulla
l’anestesia d’una gioia contiene
il barcollante mio dirti tesoro
avrò sempre necessità d’un’isola
per leggerti con cura, che tu prenda
le mie mani e mi conduca dove io
non avrò nome e sarò penna o vela,
tua l’ossatura del mare. Dovrò
uscire da me: l’orbita è il tuo mattino.



III

Sei fuori, dentro questa corsa, subito
t’ha afferrato il passaggio d’aria, smorfie
di un grido ossigenante per fortuna
evitata cianosi le narici
pervie vita ti salta, gatta, in petto
il visomiele è ancora misto a sangue
tu come piccola passione viva
da lavarsi veloce sotto luce,
latte incubante per rigenerarti,
ma poi l’inerpicarsi dello sguardo
coglie una zolla mancante al tuo prato,
il dialogo cocente tra il primario
e tuo padre mi crede se le dico
che l’attenta scopia degli strumenti
si confonde di fronte al non-finito?
Noi studieremo cos’è questa notte
non può ghermirvi siete in una casa
protetta da ogni male stia tranquillo
a sua moglie diremo tutto piano
ci sarà l’espansione di progressi,
coriandoli d’ottobre nel lettino.



IV

Non tema è piatto fisso d’esperienza
che taluni non abbiano ultimato
lo sviluppo dovuto lei signora
s’infili maschere ridenti sia
figura mossa fase di speranza
così m’aggrappo al tuo sonno nell’alba
la succhio anche per te la tiro giù
prendo io la colpa amplifico il mio cuore
sonar di donna istoriata da corsi
preparto predicavano chi ama
cattura al volo i mali dell’amato
ma la sentenza rimane una favola
della realtà non è incisa nei fatti
che m’attaccano, resto impreparata
al capogiro piovuto da questa
pancia-letargo sei millimetrato
da parametri e monitor la nascita
poteva insomma procedere come
tempio davanti all’azzurro in programma.


V

Per il momento nulla non hai denti
per la fame ma solo trilli a senso
variabile ci penso io al contorno
stappo sorrisi dall’ammasso, al gong
dirigi l’aria con mane sbaffate
da capricci, strisciando trovi sbarre
di no opposti da sensi materni
nonostante il problema tuo mi sgrano,
rosario in chiaro, forse non dovrei
contraddire la luna che ti guida
il volto ai maghi, m’esporto nel tempo
del dopo quando sarai ciò che avremo
potuto e l’esito fulminerà:
sei nella norma o qualche punto fuori.

Lavo le ore soffio il tuo respiro
nell’avvolgente lentezza di pale
eoliche, ruotano un sole prudente
e ne rimandano l’eco la volta
chiedo un mattino frisbee che mi torni
senza peso, i termometri m’appuntano
un mio cercarmi senza più memoria.




VI

Ansie che colano sulla tua maglia
insieme al pomo rosso del tramonto,
l’hai scaricato per noi dalla rete
celeste, si dilatano le spiagge
di fantasie il tovagliolo è impiastrato,
l’esecuzione forzata del pasto
è lunga un reality, accorto ti muti
anfibio, ambiguo, erba formicolante,
allo specchio ti guardi duplicato,
la sconfitta ti fa esplodere sogni
mi sorridi nel vecchio trucco, farmi
schiava. M’avverto che io farò la madre
tu il figlio anche se scivolo diretta
nell’atopia e ricerco la tua anima
accolito o aquilone e con speranze
testate sostituisco la natura
difettosa signora l’arabesco
già supera l’insulto ramperà
l’edera d’una guarigione tocchi
pure rimarrà in piedi la parata
di progetti il futuro con abbaglio
il figlio presto ventenne l’amore
la scienza di studiare e poi il lavoro,
abbia fiducia, perché in un’alzata
di vento investiranno lei beati
questi anni spesi, ne sia certa, calda,
molte domande le premono gli occhi
ma nessuna finisce a terra rotta.




VII

Le orme nuotano sempre scollate
dal corpo cui appartennero non sporcano
le foto dei tuoi passi ma poi scopro
quell’accodarsi di piogge vissute,
camminammo per mano tesi quanto
poté un inverno appesi a un apparecchio
d’aria, parole, verso le regioni
dove avvenne un miglioramento, lessi
la guida a un ottimismo, me risorta
nel pieno del tuo giro noi in cerca
di fioriture per poggiare umori
altalenanti il mio pianeta vortice
d’affetto nascosta spargevo neve
riconoscevo subito le tracce
del tuo passaggio, puro più sul mio
foglio intatto, ogni impronta era racconto
che io sola comprendevo e cancellavo
il mio perimetro erano le tue
costellazioni quella posa in opera
di desideri sospesi cullavo
il tuo nome di grano, io improvviso
collo di bottiglia ne vidi uscire
soltanto gocce bianche il rosso chiuso
sul fondo non ci doveva macchiare.
Erano giorni a biglietto di sola
andata da me a te intorno il coro:
pena imperfetta puntura di pace.



VIII

Vacanza ti spingevo sugli scanni
di giochi t’allestivo guardaroba
d’amici preparavo frangiflutti
sabbia di lidi e sirene, bruciavo
il buio, il sacerdozio del timore
svaniva, respingevo fuori pista
luoghi comuni tipo l’inflazione
del bene è un male crescerà viziato,
ma poi restavo anonima davanti
ai tuoi primi chili di libertà
quando da fine utopista versavi
mare in una conchiglia (c’era un regno
e sant’Agostino in quella tenacia)
là unghie d’aliscafi uno stormire
di scie qui la tua pelle interruttore
d’euforia, ti seguivo avanti e dietro
ero il pendolo dove misuravi
esperimenti e rinunce, il traguardo:
vedi il mondo? si spezza all’orizzonte
ma noi restiamo in tramezzi-preludi
d’altre stanze dove l’azzardo è credere,
calici che si toccano in un taglio
d’occhi nell’alito portante osmosi
le abitudini le uscite per luci,
che qualcuno ci metta in bella copia.



IX

Se ne andò ormai decenni fa la brezza
di narratori che ti conducevano
d’olio al recupero ho nostalgia noi
allora, il tempo ci stava sul ventre
non perdevamo nulla, ma qualcosa
è più rapido e non ha mai ritorno:
i silenzi si staccano dal volto
e se ne vanno, così sei cresciuto.
Non sono più cadute quelle biglie
lanciate nel futuro si saranno
saldate a lai di stelle o forse nacque
la convergenza per altre creazioni,
vivo privata del cuore che m’ero
forgiata per generarti un aiuto
ma non smarrisco canzoni spaccate,
se la vita ti aspetta con puntate
che non rinuncio a credere marito
magari padre vincente speriamo
l’ambo di figli alla moda non posso
inghiottire e basta, non mi feriva
il tuo vetro cisterna di dolcezza:
se ora m’affaccio in noi c’è ancora il vento
che ti strappava voli e mi lasciò
entrare a occhi chiusi come madre.


Marco Righetti

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